I ragazzi vivono online. E noi dove siamo?


Articolo di Sabina Minardi fonte L’Espresso


Comunicano con WhatsApp. Trascorrono le giornate su Facebook. Condividono ogni aspetto della loro vita sui social, spesso ignari delle possibili conseguenze. La cronaca riporta ogni giorno episodi di molestie, bullismo, ricatti sessuali. Ma per gli adolescenti e gli adulti manca l’educazione alle relazioni digitali.

Tradita dal fidanzato, pubblica su YouTube un video mentre è a letto con un altro: baci, risate e pubblica vendetta. Nel Vercellese, la violenza su una ragazzina disabile è filmata col telefonino, nell’indifferenza generale. Ad Ancona, messaggi intimidatori ai compagni di scuola circolano su WhatsApp. A Desio, una gang di baby bulli mette a soqquadro un oratorio, poi diffonde la bravata su YouTube. E ancora: a Genova, un ragazzo spinge giù un coetaneo da un molo, come prova di coraggio da postare su Facebook. Una coppietta fa sesso nei bagni di una discoteca, il video fa il giro dei cellulari di tremila persone, a Torino. Cronache degli ultimi tempi. E l’elenco è in aggiornamento quotidiano: tra ricatti sessuali e violenze di gruppo, un’epidemia di malcostume sembra aver contagiato gli adolescenti italiani. Bravate, ingenuità e cattiverie, aggravate dalla condivisione via telefonino o social network, che una cosa rendono evidente: la mancanza di educazione alle relazioni digitali.

Per il Presidente del Tribunale dei minori di Bologna, Giuseppe Spadaro, il fenomeno è allarmante: «Ogni quindici giorni ci troviamo di fronte a casi di ricatti sessuali tra minori legati a Internet» ha detto, ammonendo gli adulti a non liquidarli come ragazzate. La Polizia postale parla di “emergenza sociale”, con due adolescenti su tre coinvolti. E il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, ha presentato le “Linee di orientamento per azioni di prevenzione e di contrasto al bullismo e al cyberbullismo”: direttive concrete, per genitori e scuole, con una dotazione di due milioni di euro.

Anche i principali accusati, i social network, reagiscono: se Twitter ha ammesso di non riuscire ad arginare il bullismo online, ha tuttavia modificato le sue policy sulla privacy, con il blocco degli account in caso di “revenge porno”, foto e video imbarazzanti ai danni di un ex. E per Facebook è sceso in campo Mark Zuckerberg, spiegando alla sua comunità che bullismo ed “hate speech”, post che incitano all’odio, non saranno più tollerati. Ma davvero il bullismo ha irrimediabilmente colonizzato i social network? «Si raccoglie quello che si semina, si semina il vento e si raccoglie la tempesta», ha notato l’arcivescovo Angelo Bagnasco, a margine di uno di questi episodi. Vuoto interiore, crisi di valori. Ma il problema chiama in causa la responsabilità di educatori e genitori, spesso i primi iperconnessi: tutti spiazzati dalla difficoltà di controllare, negare, proibire le tecnologie.

Uno sciame di ragazzini
A colpire, prima di tutto, è la dimensione del fenomeno: secondo l’ultimo Rapporto Censis sulla Comunicazione, è iscritto a Facebook il 77,4 per cento dei giovani sotto i 30 anni. YouTube raggiunge il 72,5 per cento. L’85,7 per cento dei ragazzi usa smartphone; uno su tre (il 36,6) ha a disposizione un tablet. E altrove va anche peggio: secondo la Pediatric Academic Societies di San Diego, già a un anno il 14 per cento dei bambini americani passa un’ora al giorno con un gadget elettronico. Entro i due anni, il 36 per cento ha familiarità con le app.

Nell’adolescenza, ben più che semplici strumenti d’uso quotidiano, cellulari e tablet diventano protesi di crescita. Come un tempo erano il motorino, il giubbotto o il tatuaggio: segnali contemporanei per definire scelte e appartenenze. Come il rilievo social, appunto: popolarità che si misura in followers e in like. E si conquista grazie a una vita in (presa) diretta: tra foto, video, blog, ma anche commenti, insulti, parole in libertà. Come quelle intercettate dai professori di una scuola di Cuneo, di ritorno da una gita a Roma: il video ritraeva, nella stanza d’albergo, uno studente denudato e deriso: in quattordici sono stati puniti, nonostante le proteste di alcuni genitori. Scorrettezze che si consumano live, e al tempo stesso potenzialmente per sempre, anche quando diffuse con le tecnologie più “volatili”, da Periscope su Twitter a Snapchat (le immagini si cancellano appena visualizzate). Perché basta che qualcuno le abbia salvate sul pc, per riproporle all’infinito nel tempo. «Hanno preso le foto di mia figlia pubblicate sul profilo Facebook e le hanno modificate. In alcune hanno aggiunto parolacce, altre le hanno photoshoppate in modo da imbruttirla», racconta una mamma al settimanale “D”: «Poi hanno cominciato a scambiarsele in un gruppo su WhatsApp. Lei era devastata: sei bulli, oltre a deriderla sui social, la prendevano in giro in classe».

Se la testimonianza si conclude positivamente, grazie a un’alleanza tra madre e figlia, e il supporto di Telefono Azzurro, vivere in Rete questo rischio comporta: essere “Nello sciame” (Nottetempo), come spiega il fin troppo catastrofista filosofo coreano Byung-Chul Han: siamo tutti una massa digitale, altamente manipolabile, con la possibilità di accedere a contenuti infiniti. Ma se davvero la tecnologia contribuisce alla costruzione dell’identità dei ragazzi, la questione merita la massima attenzione.

Nativi ma vulnerabili
«Aiutare gli adolescenti ad avere una vita pubblica sicura dovrebbe essere la prima preoccupazione degli adulti», scrive danah boyd (in minuscolo all’anagrafe), responsabile Ricerca di Microsoft e docente di Media e comunicazione alla New York University. Il suo saggio, “It’s complicated” (Castelvecchi), è al momento la più compiuta analisi della vita sociale degli adolescenti sul web. Una cosa specialmente preoccupa boyd: che l’etichetta “nativo digitale” sia usata come il parafulmine delle nostre paure. Come se i bambini di oggi, cioè, per il solo fatto di essere cresciuti immersi nella tecnologia, siano anche dotati di strumenti per difendersi. Al contrario, è la loro estrema vulnerabilità a colpire.

«È più probabile che gli adolescenti siano più ingenui digitali che nativi digitali», ammonisce la sociologa Eszter Hargittai. La boyd rincara la dose: «Gli adolescenti sanno manipolare i social media per attirare l’attenzione e aumentare la visibilità, ma questo non significa che siano automaticamente in grado di gestirne le conseguenze». Le conseguenze, appunto, prima fra tutte il rapporto tra vita reale e digitale: se per gli adulti la demarcazione è sfumata, per i giovani non esiste più. Anzi, non ha ragione di esistere: i pionieri della Rete fuggivano dalla realtà, tra chat e forum; gli adolescenti vanno online per proseguire il dialogo con la comunità di appartenenza. Ma nessuno ha spiegato loro, in questo passaggio tra mondi, che amori, amicizie, sesso, e tutto ciò che fa parte della crescita – scritte sui muri, pettegolezzi, confidenze che non lo sono mai abbastanza – in pasto a Internet, rischiano di essere falsati e amplificati. Che il “capitale sociale”, il network di relazioni che intessono, non è affatto neutro, ma conta nel presente ed è spesso decisivo nel futuro. Che esiste una differenza tra pubblico e privato. “How to Speak Internet”, si domanda “The Financial Times”, avvertendo dei rischi di fraintendimento linguistico della Rete. E un saggio inglese, provoca, insistendo sul concetto di “vergogna” come limite alla trasparenza: “Is Shame Necessary. New Uses for an old tool” di Jennifer Jacquet. “So You’ve been publicly shamed”, scrive Jon Ronson: come le umiliazioni online possano rovinare la vita.

In Veneto, la Polizia postale ha rintracciato i responsabili di una pagina Facebook che collezionava materiale hot, intercettato e diffuso da minorenni. “Spotted” più il nome della scuola è la pratica delle bacheche online per mettere alla gogna qualcuno: la polizia le chiude e riaprono continuamente. Il cyberbullismo può essere un incubo.

L’eco dei social network
«Attenzione però agli allarmismi», interviene Giovanni Boccia Artieri, professore di Sociologia dei New Media e Internet Studies all’Università di Urbino e autore di “Facebook per genitori” (40K) e “Stati di connessione (Franco Angeli): «I ragazzi vanno educati a un uso consapevole delle tecnologie, ma ricordiamo che un fenomeno che accade in Rete ha una “magnitudine” maggiore che nel mondo fisico. Il bullismo è grave e diffuso; il cyberbullismo, al confronto, ha percentuali minime. Certo, se io trasferisco la conversazione di un gruppo su WhatsApp all’intera rubrica telefonica, quelle comunicazioni acquisiscono una magnitudine superiore e più pericolosa che in passato. Siamo in un mondo nuovo: improvvisamente ogni dialogo a due può diventare pubblico, basta condividerlo. È un problema di scala: online si amplifica tutto».

A Salerno, una ragazzina manda in chat al fidanzato foto intime: è un gesto superficiale, ma è convinta che resteranno in mano al suo ragazzo. Lui, invece, con l’immaturità e la spavalderia della sua età, non resiste alla tentazione di postarle agli amici. E il danno è fatto: gli scatti si ritrovano sui profili sociali di tutta la scuola. Per la studentessa è uno choc: non vuole più andare a scuola, non mangia, piange per il senso di intimità violata. Recuperare è una strada in salita.

Eppure, a volte, pochi accorgimenti tecnici evitano molti rischi. Come saper utilizzare le regole sulla privacy: gli esperti suggeriscono di insegnare a riflettere su chi accede ai profili social, su chi è potenzialmente in grado di vederli e su come verranno interpretati. «Riguardo alla differenza tra pubblico e privato, siamo abituati a tenere separati i due ambiti. E oggi che tutto è più pubblico, sembra che il privato non esista più», continua Boccia Artieri: «In realtà, i due concetti vanno ridefiniti: non sono parti della stessa coperta, che se si accorcia da un lato si allunga dall’altro. È l’insiemistica il modello per capire: a seconda dell’autorizzazione che diamo, una cosa può essere pubblica e privata insieme. I social network consentono sfumature, per costruire anche un privato in un territorio apparentemente aperto. Si parla di “intimità connessa”: se pubblico un’immagine, ma non aggiungo una parola, sto lanciando un messaggio a chi è in grado di capire, escludendo gli altri. È importante spiegare come gestire lo sguardo altrui».

Essere “in pubblico” o essere pubblico, c’è differenza, ribadisce boyd: lo confermano le strategie per cifrare i significati agli occhi degli adulti: la privacy, rispetto a genitori e insegnanti, non è affatto morta.

Verso una vera cultura digitale
C’è un altro aspetto che accomuna i ragazzi: l’incoscienza riguardo ai possibili effetti della vita digitale: da una parte si sentono invulnerabili, dall’altra coltivano un senso di impunità. Bulli che picchiano coetanei e pubblicano su YouTube il video del pestaggio. Ragazze che si espongono al rischio di ricatti, senza la minima consapevolezza. «Se non torni con me scarico in Rete le foto che sai»: così un ragazzo minacciava l’ex fidanzatina di 13 anni, prima che una psicologa, in una scuola romana, la tirasse fuori dal ricatto. E a Ravenna un gruppo di dodicenni ha accerchiato e spogliato un coetaneo, per poi condividere il gesto sullo stesso gruppo WhatsApp della classe.

Ha colpito anche l’episodio della “bulla” di Sestri Ponente che, dopo aver aggredito in un parco, su commissione di chi filmava la scena, una compagna dodicenne, non ha mostrato davanti alla polizia il minimo senso di colpa. «Quando mi ridate il cellulare?», l’unica preoccupazione. «Mi sentivo forte, mi sentivo leader», raccontano le bad girls pentite. Non c’è dibattito: serve una nuova alfabetizzazione. Anche per sviluppare uno spirito critico, al momento carente: secondo la ricerca Ipsos-Save the Children “I nativi digitali conoscono davvero il loro ambiente?”, il 58 per cento dei teenager ha cominciato a utilizzare Internet da solo. Un ragazzo su tre ha dato il numero di cellulare e incontrato qualcuno conosciuto online. In un caso su due, la persona conosciuta in Rete non era chi diceva di essere. Ma a chi spetta insegnare? Ai genitori, i primi a riconoscersi impreparati? O agli insegnanti, chiamati a compiere una rivoluzione della tecnologia nelle scuole, spesso senza alcuna cultura digitale? «Spetta a entrambi, agli adulti. Dovremmo chiedere ogni giorno ai nostri figli non solo come è andata a scuola, ma anche come va su Facebook», aggiunge Boccia Artieri: «E non basta che gli educatori dicano: «Spegniamo i cellulari in classe o chiudiamoli in un armadietto», perché per il resto della giornata i ragazzi saranno iperconnessi. Parliamo, invece, delle straordinarie potenzialità della tecnologia. Io non credo nell’Educazione Civica a Internet. Ma mi piacerebbe che a scuola ci fossero lezioni per spiegare come fare un vero uso della Rete, come utilizzarla per cogliere opportunità».

Se in Gran Bretagna sono parte dell’offerta scolastica, negli Stati Uniti è stato Barack Obama, su YouTube, a invitare i giovani a sfruttare le tecnologie, invece che subirle. Le lezioni di “coding”, per imparare a programmare, sono considerate la strada migliore anche per contrastare la tecnoanarchia: insegnare ad avere dominio dei motori di ricerca, del linguaggio informatico; smascherare le regole che sovrintendono ai social network. CoderDojo, nato nel 2011 in Irlanda, è una rete di genitori ed educatori che insegna a programmare, con una sola regola: “Be Cool, bullyng, lying, wasting people’s time and so on in uncool”, sii in gamba, il bullismo, mentire e far perdere tempo non è da persona in gamba. «È importante come leggere e scrivere», dicono al CoderDojoclub di Roma. Non limitarsi ad essere “consumatori di digitale” è un impegno del piano sulla “Buona Scuola”, che fa esplicito riferimento al “coding”, al lancio di una piattaforma (Italia.Code.org) e di un programma per “digital makers”, per acquisire consapevolezza digitale. Facendo leva sullo stesso mondo giovanile, che sul bullismo ha le idee chiare: per il Rapporto Generazione Proteo della Link Campus University, il bullo è un insicuro (28,2 per cento), un violento (25,9), un insoddisfatto (22,1), che usa la Rete per sentirsi forte. Anzi, se il bullismo, offline, ha percentuali preoccupanti (il 40,3 per cento dice di essere stato oggetto di insulti ripetuti; il 47,2 è stato offeso con la diffusione di notizie false; il 39,8 tramite telefonate o messaggi sgradevoli; il 35,8 ha subito umiliazioni di fronte ad altri; il 24,9 ha subito minacce dai coetanei), quasi due ragazzi su tre sono convinti che la tecnologia abbia contribuito a incrementarlo: il 12,2, per cento ha visto pubblicati foto o video compromettenti che li ritraevano.

«A volte certi comportamenti sono frutto di ingenuità», interviene la scrittrice Maria Pia Veladiano, che è preside a Vicenza. «Mi sono trovata di fronte a un uso disinvolto di WhatsApp; l’abbiamo arginato facendo intervenire i genitori. Spesso, però, non sono i migliori alleati, perché prime vittime del fascino tecnologico. È importante che questi strumenti arrivino nelle mani dei bambini il più tardi possibile: le neuroscienze ci mostrano quanto siano pericolosi, se utilizzati troppo presto». “Lasciateli giocare” (Einaudi), saggio dello psicologo Peter Gray, studioso da anni degli indici di creatività dei ragazzini americani, punta sull’altra faccia del problema: dimostrando la correlazione tra la fantasia dei bambini e l’essere stati lasciati liberi di giocare in spazi aperti, prima dei dodici anni.

«C’è stato un deficit di responsabilità: una grande distrazione del mondo adulto verso le tecnologie», dice Veladiano. E la scuola è pronta ad assumersi il compito di recuperare? «Ancora una volta ha il compito di educare tutti, non solo i ragazzi. Ma serve una formazione specifica degli insegnanti. Formazione non vuol dire solo didattica o capacità di usare il computer: è necessaria una istruzione a una visione larga delle cose. Per spiegare, per esempio, la delicatezza dei social, terribili moltiplicatori di narcisismo. Utili si stanno rivelando i progetti formativi che mettono in campo l’esperienza della polizia».

Libri, corsi e altri rimedi
Workshop nelle scuole sono una priorità per la polizia: “Vita da social” è un corso in 40 città (qui tutte le tappe). È un dirigente della Polizia postale uno degli autori di “Generazione Cloud” (Erikson, con Michele Facci e Serena Valorzi), tra i primi testi a indagare l’“Essere genitori ai tempi di smartphone e tablet”. Ribadisce il concetto “Generazione Tablet. I sì e i no per crescere nell’era del web” di Katia Provantini e Maria Longoni (Mondadori). “Sempre connessi” di Maria Calabretta (Franco Angeli) è una guida “per non perdere le tracce dei propri ragazzi tra Facebook e social network”. “Sempre in contatto”, degli psicologi Matteo Lancini e Laura Turuani, dimostra quanto Internet e cellulari influenzino i processi evolutivi.

Anche la narrativa, sulla scia di Dave Eggers e de “Il cerchio” (Mondadori), romanzo sull’incubo di una vita resa trasparente dai social, coglie il tema: Lottie Moggach (Editrice Nord) con “Prendi la mia vita”, sul rischio di essere svuotati di ogni privacy; “Tutto ciò che resta” (Longanesi), di T.R. Richmond, pseudonimo di un giornalista inglese, è un thriller su ciò che ogni giorno di noi lasciamo sul web.

Il “Safer Internet Day” dell’Unione europea esattamente questo promuove: una Rete più sicura, incoraggiando i giovani a usarla nel rispetto di tutti. Ma non basta una giornata soltanto. «Gli studenti devono acquisire la consapevolezza di avere davanti a loro un’autostrada e che per usarla con sicurezza e coscienza devono avere una patente», dice il ministro dell’Istruzione Giannini. Il Garante della Privacy Antonello Soro suggerisce soluzioni concrete, in caso di cyberbullismo: tutela rafforzata, con una procedura accelerata per rimuovere il contenuto lesivo in tempi brevi. La stessa direzione scelta da un disegno di legge (proposto da Elena Ferrara, Pd), che punta a tutelare le vittime, prima che a sanzionare il bullo. E la riforma scolastica di Renzi, se attuata davvero, vincola a pubblicare nel Pof d’istituto le “Istruzioni sull’uso sicuro di Internet”, e prevede un programma di Cittadinanza e Costituzione, comprensivo di azioni contro il cyberbullismo.

E se si verifica lo stesso? Gli strumenti per intervenire ormai non mancano: a Catania il Comune ha avviato un programma antibullismo. A Salerno il progetto “Crescere che avventura” è stato lanciato in quattro istituti pilota. A Cagliari, in questura, è nato un centro d’ascolto per minori: accoglierà chi ha necessità di confrontarsi con esperti o denunciare situazioni di disagio. A Potenza è attivo l’“Help center Cyberbullismo” con psicologi ed esperti legali. Telefono azzurro, che contro il cyberbullismo ha lanciato una campagna e un sito, è in prima linea nel contrasto alla violenza sui bambini dal 1987 con la linea 1.96.96 e con il 114 per le emergenze (il 14 per cento delle richieste d’aiuto nel biennio 2013-2014 ha riguardato casi di bullismo, con un trend in crescita di oltre il 5 per cento rispetto al periodo precedente). Il Ministero dell’Istruzione ha un numero verde da chiamare (800.66.96.96). È attivo il 43002 del Ministero dell’Interno per segnalazioni di episodi di bullismo via sms. E le sanzioni cominciano a fioccare, a partire da quelle dei presidi: a Castelfidardo una ragazza divulga su WhatsApp le foto dell’amica che si spoglia in palestra. Sospesa da scuola.